S’intitola “Ero l’uomo della guerra” (Laterza, pp. 224) il nuovo libro del giornalista taurisanese Antonio Sanfrancesco, firma di Famiglia Cristiana, e vincitore nel 2018 del premio giornalistico “Carlo Azeglio Ciampi” per il reportage sulla rotta alpina dei migranti tra Oulx e Briançon, al confine tra Italia e Francia.
Il volume, disponibile in tutte le librerie e gli store digitali dal 22 settembre, racconta la storia di un imprenditore barese, Vito Alfieri Fontana, che per oltre vent’anni, alla guida dell’azienda di famiglia, la Tecnovar di Bari, ha progettato e prodotto mine vendendole in diversi Paesi del mondo.
Per la prima volta, attraverso la penna di Antonio Sanfrancesco e la sua abilità a cogliere con delicatezza ogni aspetto della vicenda, l’ex fabbricante di armi, che nella sua carriera ha progettato e venduto due milioni e mezzo di mine antiuomo, racconta senza reticenze le due vite che ha vissuto: da progettista e fabbricante di armi a operatore umanitario.
Negli anni Novanta, sarà la domanda del figlio, che gli chiede: «Ma tu, papà, sei un assassino?» ad innescare – in parallelo con l’avvio della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, guidata in Italia anche da Gino Strada – una lacerante conversione personale che lo porta a cambiare vita grazie anche alla figura di don Tonino Bello.
Nel 1993, Fontana decide di chiudere la Tecnovar, facendo i conti con la contrarietà del padre, che non voleva chiudere l’azienda da lui fondata e portata avanti con spirito caparbio e arrembante; con lo Stato italiano che prometteva fondi, mai arrivati, per la riconversione e impedire, così, che gli ottanta dipendenti perdessero il lavoro.
Nonostante le iniziali frizioni con il mondo della cooperazione internazionale, nel quale voleva entrare a lavorare e che era diffidente per il suo ingombrante passato, nel 1997 va a Oslo come consulente della Campagna accanto all’attivista statunitense e premio Nobel per la Pace Jody Williams. Due anni dopo comincia la sua seconda vita: con l’Ong Intersos inizia il suo impegno di sminatore umanitario in Kosovo per permettere alle popolazioni appena uscite dalla guerra un ritorno alla normalità. Il suo impegno di sminatore lo porterà anche in Serbia e poi in Bosnia.
“Due vite vissute, un passato che non passa, un lieto fine che non c’è. – scrive Antonio Sanfrancesco – Più volte, nel corso dei nostri colloqui, gli ho chiesto se l’impegno umanitario, inseguito caparbiamente a costo d’innumerevoli sacrifici come la lontananza dalla famiglia, avesse non dico cancellato ma almeno attenuato il senso di colpa per la vita precedente. La risposta è sempre stata no: ‘Posso solo dire di essere contento ma non felice perché il problema non era espiare una colpa ma la gente che è morta e si è fatta male a causa degli ordigni che ho progettato e costruito. Ho costruito e venduto due milioni e mezzo di mine, ne ho tolte migliaia, per quasi vent’anni, nei Balcani. Dal punto di vista numerico, il bilancio è impari. Da quello della mia coscienza pure, perché il male compiuto resta. Per sempre’”.
“Ero l’uomo della guerra” è un libro che, prendendo le mosse dal racconto in prima persona dell’evoluzione eccezionale di Vito Alfieri Fontana, interroga ciascuno sulle responsabilità dei singoli rispetto ai fatti della Storia.
A distanza di anni e nonostante l’impegno umanitario di Fontana, i fantasmi del passato sono venuti nuovamente a bussare alla sua porta. È il 9 gennaio 2023 e sui profili social ufficiali dell’ambasciata russa in Italia compare un messaggio accompagnato da una foto di alcune mine con il cartellino che indica il tipo di modello e il Paese di fabbricazione. Uno di questi ordigni, la mina antiuomo TS-50, è stata progettata e costruita proprio da Fontana.
“Qualche giorno dopo il messaggio sui social, a casa di Fontana, a Bari, squilla il telefono. – spiega Antonio Sanfrancesco – È un funzionario del nostro ministero della Difesa che chiede spiegazioni su quegli ordigni made in Italy. Fontana conferma che si tratta di mine prodotte dalla Tecnovar e vendute, legalmente, più di quarant’anni fa all’Egitto che poi le ha riempite d’esplosivo nella fabbrica di Heliopolis e vendute a sua volta, direttamente o tramite triangolazioni, ad altri Paesi, come l’Iraq, l’Afghanistan e probabilmente anche la Russia. «Non dormo da diverse notti», mi scrive, «anche se non ho nulla di cui scusarmi o giustificarmi, questa vicenda mi ha gettato in uno stato di grande sconforto e depressione. È il passato che non passa. Anche dopo tanti anni, due vite vissute, un percorso che mi è costato tanti sacrifici, rinunce e umiliazioni. E poi non è giusto che la mia famiglia continui a vivere un incubo che non merita»”.